Da una decina di anni si sente riparlare di 33 giri e si constata la produzione di album in vinile da parte di alcune etichette; sembrava un capriccio del momento, una moda dalla vita breve, invece nei negozi e sulle riviste specializzate di musica se ne trattano sempre di più. Non sono pochi gli appassionati che hanno rispolverato “antichi” piatti dalla cantina rimettendoli a girare, insieme a vecchi e profumati dischi dalle copertine scolorite ma dal fascino immutato.
Questo ritorno di fiamma verso una modalità vintage di ascoltare musica e di fruire di un’arte che nella teoria sarebbe, tra le immateriali, la più amata, deve però riflettere su un’ importante caratteristica del vinile: la sua stessa composizione fisica.
I dischi sono quanto di più anti-ecologico possa esistere poiché sono ancora fatti in PVC, cloruro di polivinile, un composto chimico che potrebbe essere riciclabile, se non fosse che farlo ha dei costi estremamente elevati. Inoltre, le compagnie che si occupano di questo tipo di riciclo tendono a evitare di ritirare dischi perché, insieme al PVC, nella loro composizione ci sono metalli pesanti e polveri sottili, o, peggio ancora, diossina, che posso sprigionarsi con gravi rischi per la salute di chi viene a contatto con queste sostanze.
Purtroppo la modalità di produzione di un vinile oggi, nel 2020, è rimasta tale e quale a quella negli anni 70 e, se già 50 anni fa il problema dell’impatto ambientale relativo si paventava, indubbiamente oggi il nostro pianeta ha una capacità di sostenerlo ancora minore.
Proprio per tale ragione è praticamente impossibile trovare la dicitura “disco in vinile” sull’ elenco dei materiali riciclabili da differenziare; vero è che ogni disco è un pezzo da collezione per chi lo acquista, ma altrettanto vero, utilizzando la stessa mentalità di un vegetariano o di un vegano, che abbassandone la domanda, l’industria, come immediata conseguenza, ne diminuirebbe la massiva produzione.
Oggi più della metà del cloruro di polivinile utilizzato dai produttori di dischi statunitensi proviene da una società thailandese, la Chemicals Public Company Limited (TPC) con sede a Bangkok, e viene lavorato sulle rive del fiume Chao Phraya. Il processo di produzione del PVC è complicato poiché si ottiene sintetizzando i componenti chimici; il materiale grezzo viene quindi mescolato con vari additivi, riscaldato per formare un composto di plastica fusa, passato attraverso una matrice e tagliato a pezzetti, simili a delle lenticchie nere. Il PVC contiene sostanze cancerogene e la produzione genera acque reflue che la società, secondo Greenpeace, versa fin dagli anni Novanta nel fiume Chao Phraya.
Durante il periodo di massimo splendore del vinile, la situazione negli Stati Uniti non era diversa. Negli anni Settanta la Keysor-Century Corporation, a nord di Los Angeles, forniva all’industria discografica statunitense circa 20 milioni di chili di PVC all’anno. Nel 1977 la Keysor-Century venne messa sotto inchiesta dall’Agenzia per la protezione ambientale, e poi di nuovo all’inizio 2000 quando venne anche multata per più di 4 milioni di dollari per aver esposto i lavoratori a esalazioni tossiche, per aver rilasciato sostanze tossiche nell’aria e aver scaricato illegalmente acque reflue.
È impossibile sapere quanta parte dell’inquinamento sia direttamente legata alla produzione di dischi in vinile, ma una cosa è certa: la musica, è dura affermarlo, l’arte nobile che è definita vitale da gran parte della popolazione, rilascia anch’essa esternalità ambientali negative.
Gli LP, così come le musicassette e i CD, sono derivati petroliferi che sono stati prodotti e distrutti in massa dalla metà del XX secolo. Durante i picchi di vendite negli Stati Uniti, l’industria discografica utilizzava quasi 60 milioni di chili di plastica all’anno. Utilizzando le medie attuali di emissioni equivalenti di gas serra per chilo di produzione di plastica, si potrebbe ipotizzare che siano stati emessi oltre 140 milioni di chilogrammi di CO2 ogni anno: solo negli Stati Uniti e per la produzione di musica. Dunque la musica, come praticamente tutto il resto, è coinvolta nel petro- capitalismo dato che, su tutti i fronti di produzione della musica, eccezion fatta per il live (“green” da che mondo è mondo) esiste una quantità di energia richiesta anche per lo streaming di un album seppur, in questo caso, l’utilizzo di materiali plastici o chimici si annulli. Le nuove modalità di ascolto digitali infatti producono un’elevata emissione di gas serra ed i dispositivi utilizzati per fruirne (smartphone, ipad, lettori e computer) si basano sullo sfruttamento di risorse naturali e umane, anche se il loro impatto è indubbiamente “ammortizzato” da utilizzi accessori ed alternativi al semplice ascolto della musica.
La soluzione all’utilizzo di materiale riciclabile nella produzione di dischi è oggetto di studio da parte di alcune aziende olandesi che stanno sperimentando un materiale riciclabile, evitando l’utilizzo del PVC e rendendo il vecchio vinile rispettoso dell’ambiente; la pecca ed il limite, ad oggi, di questo nuovo materiale è la qualità del suono che non risulta pulito ed accettabile e, talvolta, restituisce il suono in maniera intermittente. Qualora si riuscissero a smussare questi limiti che al momento sono cospicui e non permettono una virata produttiva in tal senso, indubbiamente si potrebbe scegliere una tipologia di suono, anche leggermente differente, in virtù della certezza di un impatto sull’ambiente più che dimezzato.
Scoprire che qualcosa di bello come la musica abbia a che fare con delle problematiche così allarmanti ed insidiose per l’ambiente non è certamente piacevole, ma sapendo e studiando metodologie produttive alternative si può muovere il primo passo verso il “perfetto compromesso” tra arte e rispetto per il nostro pianeta, già duramente messo alla prova.