Quest’anno il Nobel per la letteratura non ha generato particolari stupori o polemiche come in anni recenti con l’assegnazione a Bob Dylan o a Peter Handke. La poetessa americana Louise Glück è infatti per molte ragioni una scelta “fisiologica”, sicura e, in quanto tale, difficilmente contestabile. Certamente non era in prima fila tra i cosiddetti papabili favoriti, e nemmeno nelle retrovie, ma si sa, davanti all’Accademia di Svezia nulla è mai scontato.
Il premio assegnatole era però ipotizzabile perché negli Stati Uniti la Glück è un’autrice molto apprezzata dalla critica, ed ha già vinto importanti premi, tra cui il Pulitzer nel 1993 per la poesia per la sua collezione The Wild Iris. In questo testo dona parola alle piante e ai fiori coltivati nel giardino di una casa nel Vermont, dove aveva soggiornato con il figlio per un periodo, per spiegare e mostrare tratti del mondo e delle relazioni in generale, attraverso particolari gesti riferiti alla coltivazione del giardino stesso; ulteriore successo è stato il National Book Award guadagnato nel 2014.
Appena insignita del Nobel giorni fa, con la sua stringata ironia ha esclamato di poter adesso finalmente comprare una casa in quel Vermont di cui negli anni ’90 aveva scritto.
Nei suoi versi c’è spesso una eco biblica, che si ritrova nel domestico specchio dell’Eden della collezione The Wild Iris, insieme ad una forte influenza classica con chiari riferimenti ai miti greci e romani, che la Glück mescola a temi come la solitudine, i legami familiari, l’infanzia, le separazioni, la morte, in un viaggio interiore severo che non teme di affrontare il dolore.
Nei suoi scritti è proprio la solitudine, l’isolamento del singolo individuo disperso nella storia e nella società, con risvolti cosmici o metafisici, in qualche misura leopardiani per noi italiani, a costituire il motivo centrale della poesia di Louise Glück; una poesia talvolta dura, poco conciliante e che non intende affatto fornire istruzioni, ricette semplici o soluzioni scontate né tantomeno scorciatoie o vie di fuga. La sua è una poesia complessa, non a livello d’espressione o di enfatica densità metaforica ma, paradossalmente, per l’essenzialità e l’immediatezza “asciutta” che costituisce l’unicità della sua scrittura; una scrittura difficoltosa più a livello concettuale, nonostante i toni fortemente colloquiali che costituiscono il marchio di fabbrica della sua poesia, che formale, e che è contraddistinta da un infallibile tono colloquiale che la ricollega al tratto distintivo della tradizione poetica statunitense in cui la Glück mostra di avere il proprio retaggio: da Emily Dickinson a Wallace Stevens, fino a Sylvia Plath e Robert Lowell.
L’identikit del “lettore ideale” della Glück è un lettore paziente, voglioso di capire come le parole, i rapporti umani, le relazioni familiari e di coppia, le percezioni, la sensibilità, l’osservazione della natura stessa, sino al dialogo con il creato, necessitino sempre di una profonda conoscenza e di meditazione, prima di giungere ad una risposta.