Viviamo in un’epoca particolare, un’epoca in cui i giovani pretendono di avere tanto e impegnarsi poco.

Non per nulla la chiamano la generazione del “tutto e subito”. (Con poco sforzo, si intende).

Purtroppo questo modus operandi, conseguenza di una forma mentis approssimativa ed epidermica, non allena al fallimento.

Proprio così, questa generazione non è allenata al fallimento.

Se si cerca il verbo “fallire” nel Dizionario si trova una precisa definizione: “ non giungere a realizzazione o a compimento”.

Non riuscire nel proprio intento, non raggiungere lo scopo desiderato, mancare l’obiettivo, sbagliare per inavvertenza o incapacità trascina questi giovani in un senso di profonda insoddisfazione che non può avere altro sbocco che crisi e apatia generale.

Ci si rifugia in altre realtà, si cerca di conformarsi il più possibile a ciò che può dare effimeri appagamenti e si espone tutto sul davanzale che sono i social network. Mentre dentro la stanza, oltre la finestra è tutto incompleto e in disordine.

Fallimento come anormalità. Questo è il male!

Il fallimento è e deve essere la naturale eccezione. Qualsiasi cosa intraprendiamo nella vita deve contenere la possibilità del fallimento, dell’errore, della caduta.

Nei progetti, negli esami, nei rapporti familiari, nell’amore, nell’amicizia. E non significa vivere rassegnati e disillusi, ma semplicemente farsi primavera accettando il rischio dell’inverno.

L’imperfezione fa parte di noi. Dobbiamo imparare ad accettarla e saltarci su affinché sia un trampolino e mai un ostacolo.

D’altronde l’unico fallimento sta nel permettere alla sconfitta di avere la meglio su di noi.

“Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”.

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